Quelle che seguono sono le parole spesso pronunciate dai pazienti al termine di una prima visita psichiatrica:
“Dottoressa, cosa ho?”
“Dottoressa, sono grave?”
Ciò che le persone chiedono è infatti una diagnosi; il modello medico ci ha abituati alla ricerca di una malattia che ha un nome preciso, come se questo nome conferisse la garanzia di sapere cosa fare e sapere come andrà a finire. Peccato che la diagnosi psichiatrica abbia spesso (non sempre) poco a che fare con tutto questo! La diagnosi è sostanzialmente un processo di denominazione che trasforma l’esperienza della sofferenza in un codice verbale. La diagnosi psichiatrica nella maggior parte dei casi in realtà non dice né cosa fare né come andrà a finire in quanto sono i sintomi che guidano il trattamento e non la loro organizzazione in una categoria diagnostica.
Oggi per fortuna è sempre più diffusa la tendenza a considerare approcci dimensionali alla malattia mentale ed evitare i tradizionali approcci categoriali secondo cui la malattia è presente o assente. Per approccio dimensionale si intende che c’è un continuum tra normalità e malattia e le caratteristiche di ciascuno disegnano una storia difficilmente oggettivabile con strumenti categoriali. Certamente in ambito professionale un linguaggio comune serve, e per comunicare abbiamo bisogno di strumenti diagnostici. Pertanto se il quadro clinico ed i sintomi rispecchiano le attuali categorie diagnostiche dei disturbi psichiatrici maggiori, è corretto e doveroso fare diagnosi, ma dobbiamo sempre avere chiaro che il grado di artificialità e fallacia delle categorizzazioni diagnostiche è molto elevato e che i raggruppamenti di sintomi che oggi utilizziamo non esistono “in natura”.
Oggi inoltre c’è un altro problema, siamo di fronte ad una forte mediatizzazione della malattia mentale: tutti i fenomeni normali di sofferenza psicologica e sociale vengono trasformati in malattia, per ogni sofferenza c’è una diagnosi. Non possiamo parlare di malattia e quanto meno psichiatricizzare con una diagnosi ad esempio la rabbia adolescenziale, o l’ansia di un giovane che affronta un esame universitario, o lo stress che segue ad un evento traumatico o la tristezza che consegue a un lutto.
Questo non vuole dire che situazioni di disagio e difficoltà non possano giovare di un supporto farmacologico e psicoterapeutico, ma non necessariamente chi è in cura con uno psichiatra o uno psicoterapeuta ha per forza una malattia e quindi una diagnosi.